Lo zio Socrate

di Giancarla Codrignani

Che strano. Quest'anno si vive la continua rievocazione della prima guerra mondiale, dichiarata appunto un secolo fa. In questa metà di agosto, riordinando carte, ho recuperato un paio di grossi plichi in cui mio padre aveva conservato tutti i ricordi di suo fratello Socrate, morto il 19 maggio del 1918 sul Monte Grappa. Sapevo, ma - come credo facciano i figli che pensano di rispettare i genitori anche nelle loro storie remote, ma non si danno cura di conoscerle - non li avevo mai esaminati e letti.

Poche sera fa mi sono davvero persa nel riordinare e leggere; e mi ha colpito subito conoscere un mio padre ventenne, che deve davvero aver sofferto molto la perdita del fratello maggiore, se, a quell'età, si era preoccupato di raccogliere tutto ciò che di significativo rimaneva di lui, da ciò che era stato spedito alla famiglia a cura dal Comando o raccolto dai commilitoni (perfino qualche effetto personale, un rasoio, un taccuino, uno specchietto conservati in un'apposita scatola), alle lettere che riceveva da lui e teneva separate da quelle alla mamma e alla famiglia e anche dalla cura con cui aveva preso contatto con le tante persone che lo conoscevano, con la banca dove lavorava, gli amici, un vecchio maestro disperato alla notizia della morte…. Aveva inserito nel principale contenitore - una cartella rilegata, con impressioni in oro ("Scritti, Ricordi vari di Socrate Codrignani raccolti dal fratello Duilio") - anche volantini destinati ad animare i combattenti quando la guerra che doveva durare pochi mesi si faceva difficile e ordini del giorno del Comando Militare, evidentemente spediti dal fronte. Poi la lettera tragica "urgentissima" (non c'è traccia del telegramma di stato - usavano spedirlo, credo - con la comunicazione) inviata dall'amico dello stesso reparto che "con dolore immenso…perdonami", dà la triste notizia e insiste che provvedano - "raccomando, raccomando" - a stare vicini alla madre. Il "santino" commemorativo con la foto di Socrate, lo zio finora nemmeno immaginario, in divisa militare ("a ventitré anni…incontrare morte crudele….quale pianto amaro…"), poi gli annunci sui giornali e le tante condoglianze che testimoniano la stima e l'affetto di chi l'aveva conosciuto.

E' evidente che la raccolta portava dentro tanto dolore e un affetto grande: le fotografie, compresa quella di Socrate piccolissimo, nudino come usava all'epoca; le pagelle delle elementari; le poesie trascritte (la cavallina storna, ricopiata due volte da chi aveva perduto troppo presto il babbo), i disegni scolastici e perfino due calendarietti da barbiere con le ragazze, ancora profumati. Ci ho visto già viva la passione di trarre vita dalla memoria, che avrebbe portato mio padre a privilegiare così rigorosamente lo studio della storia, da ritenere la narrativa un lusso, una perdita di tempo, che mi sembrava così contraddittoria in un uomo di grande sensibilità istintiva.

I babbi, ovviamente, li conosciamo quando sono grandi. Capisco oggi che il mio, quando ho potuto conoscerlo, aveva ormai perduto tutte le acerbità della giovinezza ed era un vero padre, uomo serio, anche ironico ma riservato, quasi timido; mai esteriormente inquieto, amante della sua famiglia e dei libri di storia (i miei bambolotti maschi si chiamavano Garibaldi e Mazzini), rispettoso della fede della mia mamma, ma estraneo alla religione, un "umanista", che - me lo ricordo ancora - fu contento di essere stato compreso dalla sua bambina che, perplessa per quel che le dicevano "a dottrina", una volta gli chiese perché non credesse in Gesù che realmente esistito e, come seppe che lo conosceva e ammirava, si rassicurò "vuol dire che per te - era alle elementari quell'anno si studiavano i romani - per te è come Giulio Cesare"). Era contrario alle guerre che vedeva ripresentarsi. Socialista, condannava i cedimenti del suo partito all'interventismo prima e al massimalismo populista poi. Antifascisti lui e mia madre non ebbero mai nemmeno il bisogno di spiegarmene le ragioni e mi educarono a vivere senza traumi il doppio binario tra una condizione esterna ostile al mondo familiare e la sicurezza privata dell'essere amata. Tuttavia il babbo non parlava facilmente di sé, delle sue esperienze, di come aveva conosciuto le persone, perfino la mia mamma. Di questo trauma subito a vent'anni non sapevo.

Un'esperienza nuova, dunque, e imprevista di incontrarlo ventenne. Già serio, positivo, nel 1918 scriveva con la retorica imparata a scuola che gli resterà sempre. Allora era patriota e credeva che la Patria meritasse il sacrificio del fratello (in cambio della vita di Socrate restava una "croce di guerra al merito" che non è stata conservata). Non era ancora uscito da un'adolescenza difficile di orfano precoce del padre e, affidato a parenti, lontano anche dalla mamma e dai fratelli. Forse per questo era diventato da subito riservato e sensibile, attento agli affetti e disponibile agli altri. Mi piace trascrivere un suo scritto con cui aveva accompagnato l'invio di fotografie di famiglia alla fidanzata del caduto: "Il 19 maggio 1918 rimarrà per noi indimenticabile, come il 24 maggio 1915, l'8 agosto 1917, il 3 novembre 1918 saranno date indimenticabili per la storia nazionale. Mentre queste ricordano le date più fulgide e radiose della nostra guerra, l'altra ci ricorda il sublime sacrificio della vita per un'alta idealità di Patria, Libertà, Umanità compiuta dal nostro amatissimo Socrate. Quella data ci ricorda che in quel giorno venne a mancare in noi una parte di noi stessi; un grido di dolore ci salì dal cuore simile al ruggito rauco della belva colpita a morte…. Egli in quel giorno si spense col sorriso sulle labbra, col pensiero gaio della Sua giovinezza; pensando ai cari lontani, alla Sua vita del domani nel proficuo lavoro e nella gioia della famiglia…. In queste umili righe…offro a Lei, Maria, (l'album con le foto) perché lo conservi anche a nome della famiglia, e nell'età avanzata questo modesto ricordo le sarà più gradito; con esso ritornerà agli anni giovanili ed al pensiero del passato, simile ad un sogno radioso, rivivrà i bei istanti passati con Lui nella brevità dell'attimo fuggente, qualche lacrima forse spunterà dal suo ciglio, ma lacrime che recano conforto, balsamo al cuore….". In mezzo alla lettera si trova un biglietto di grafia ignota, forse della ragazza, più probabilmente della mia nonna, con un elenco di riflessioni di pietà e stereotipi in rima ("e tu fidente del tuo destino andasti, ma la morte all'affetto dei tuoi cari ti rapì…"); e l'aggiunta a matita sicuramente del babbo: "Libertà va cercando ch'è sì cara come sa chi per lei la vita rifiuta".

Era la cultura del tempo e Socrate indirizzava le sue cartoline di "fratello che ti vuole tanto bene" - non ci si crede - "al gentilissimo signorino": non a caso erano stati tutti scolari di insegnanti carducciani e stavano diventando dannunziani. Mio padre, se non fosse stato per non lasciare la mamma e il lavoro, sarebbe andato a Fiume dietro il suo "Comandante" a difesa del diritto di autodeterminazione previsto per il porto franco di Fiume dallo Statuto speciale di Maria Teresa del 1776, ma anche affascinato dallo stile seduttivo del "Vate".

Questi documenti mi hanno, dunque, in primo luogo, ricuperato un capitolo sconosciuto della "storia di mio padre", quello che comprende l'origine della sua capacità di elaborare il dolore. Ne avevo avuto consapevolezza più volte (ricordo quando a Vienna, ascoltando Le nozze di Figaro, le lacrime gli scesero per un'improvviso ricordo della mia mamma). Ma non avevo mai capito che era una qualità dell'anima.

Resta comunque vero che queste testimonianze hanno fatto rivivere anche la figura totalmente sconosciuta di un estraneo che era uno zio. Mia madre diceva - nemmeno lei lo aveva conosciuto - che doveva essere un gran bravo ragazzo perché la suocera le aveva raccontato come la aiutasse a dare lo straccio (mentre il fratello minore, il più amato, era capriccioso e sbatteva a terra le camicie non stirate a puntino). Bravo lo era anche a scuola; probabilmente timido, riceveva voti migliori negli scrutini che agli esami. Aveva la tessera della biblioteca comunale, dell'Università popolare e dell'Azione cattolica. Un paio di fotografie femminili: una, credo, della sorella di un amico, l'altra della sua ragazza, quella che in un compostissimo biglietto nomina "il mio Socrate", anche se era lui quello esplicitamente innamorato (in una lettera confessa di portare la sua immagine nel portafoglio e di sentire ogni tanto "la volontà, il bisogno di guardarla e baciarla"; eppure si davano ancora del "lei"). Ci sono anche le fotografie della mamma Emilia e dei fratelli, che si era fatto mandare dopo un furto del portafoglio, restituite dai compagni che lo avevano visto morire e che erano stati contattati ripetutamente da mio padre, ansioso di conoscere come fosse accaduta la disgrazia e dove, se fosse stato sepolto (e un corrispondente dice che, sì, aveva una fotografia, purtroppo perduta: rimaneva solo l'immagine delle macerie dell'ufficio su cui era caduta la bomba).

Il "bravo ragazzo" che aveva risposto alla "chiamata della patria" consapevole del sacrificio che la patria imponeva alla famiglia - suppongo che fosse l'unico che portava in casa uno stipendio sicuro - ma anche carico dell'obbediente entusiasmo di chi aveva imparato la disciplina dei doveri civici (in pagella aveva ottimi voti nella materia che allora si insegnava). Infatti nelle lettere e nelle cartoline dice cose che fanno capire quanto i giovani giovani sono disponibili ad accettare perfino destini di morte se animati da idealità forse non così ideali, come la certezza della Vittoria. La nomina a caporal maggiore l'aveva inorgoglito e l'assegnazione agli uffici come "scritturale" gli confermava la fiducia dei superiori, mentre gli risultò fatale, perché una bomba centrò proprio la sede logistica. Era ormai prossima la fine dell'esperienza terribile del fronte di cui non aveva fatto resoconti che potessero tenere in ansia la madre e i fratelli; tuttavia molto si intravede. Di fatto è per me una contro-commemorazione del centenario di una guerra terribile voluta da movimenti popolari nazionalisti e finita nell'inutile strage. Socrate ne parla subito, quando, da recluta, arriva a Milano, città che lo meraviglia perché la conosceva solo "nelle figurine o al cinema" e di cui la sera si precipita a vedere i monumenti; ma in caserma dorme "in terra, su un po' di paglia, come le bestie". Il mattino gli daranno la divisa: "tutta roba che fa schifo, perché è vecchia, sono vestiti dei feriti e dei morti lavati e disinfettati"; anche se nel trasferimento sono accompagnati dalla banda del reggimento e "le signorine gettano dalle finestre i fiori" e perfino i superiori "per adesso sembrano buoni", arriva a destinazione che "non se ne poteva più, non abituati alla fatica, era un po' troppo". Il rancio "lo dovrebbero mangiare i maiali; io non lo mangio…quando vedo quella porcheria mi viene in mente le buone minestre mangiate a Bologna…". Poi ci si abitua: i pacchi (che in sona di guerra non arriveranno più), i vaglia, le richieste ("l'unto per i pidocchi", oppure "mandatemi tre paia di calzettoni, un colletto e una giambella"), le licenze, il tempo ("non fa altro che nevicare o piovere"), il Natale triste perché "separati". Cerca di non allarmare, sta sempre bene in salute, si preoccupa per la mamma tanto buona e affettuosa ("ogni tanto ti vedo là, in un cantuccio, sola, che pensando a tanti casi piangi…"), per le ristrettezze della famiglia, per la salute del fratello piccolo, per Duilio che sarà richiamato anche lui (fortunatamente la carenza visiva di un occhio lo farà riformare). Ma cerca di essere ottimista e quando va in zona operativa la racconta così: "non ho fatto altro che fare l'alpinista, ho girato per tutto il giorno sulle vette ove oggi si combatte strenuamente…non mi sarei mai creduto di essere stato buono di girare per sentieri, accorciatoie, passaggi, tutti ghiacciati o coperti di neve, ove il passaggio era faticoso e difficilissimo; eppure sono riuscito anch'io, come se fossi stato un vecchio alpino. Non si vedeva altro che neve e ghiaccio, la tormenta ostacolava la passeggiata e in lontananza si vedeva il Piave, ove le truppe Italiane resistono ai formidabili attacchi austriaci. Eppure, se si fosse in tempo di pace, credereste che si starebbe molto bene passarvi la stagione estiva…".

I trasferimenti erano all'ordine del giorno, ma in "zona di guerra" non si fanno nomi di luoghi e un'innocente cartolina di paese ha il nome cancellato dallo zelo della censura di guerra; tuttavia, prima di arrivare sul Monte Grappa, sicuramente era stato in zone di confine, in Friuli, nel Carso; racconta perfino che si vociferavano missioni in Macedonia, in Albania…"sempre cambiamenti, sempre trasferimenti, una vera baraonda, non si brama altro che tutto sia finito per tornare in mezzo a voi". Ma ogni tanto ci sono i momenti buoni: il ragazzo ha "appetito, aria buona, lavorare poco, meglio di così come deve andare?". "Che scorpacciate d'una tra i filari…". E così la mamma sta più tranquilla. Ci sono anche imprevisti di vita quotidiana che non si vorrebbero raccontare, se non si avesse bisogno di aiuto: "mandatemi una decina di lire perché l'altra notte mi hanno portato via il portafoglio,la catena d'argento, il portamonete, la penna stilografica, l'orologio, insomma non mi hanno lasciato altro che il piastrino di riconoscimento e perciò a poco a poco voglio ricomperare tutto…".

La guerra affascina anche gli uomini miti: "Ieri ho visto a occhio nudo una battaglia emozionantissima fra un aeroplano Italiano e uno Tedesco e, dopo una battaglia aspra, l'aeroplano tedesco (questa volta senza maiuscola) è caduto sulle nostre linee, fra le acclamazioni dei nostri". Era il periodo delle grandi aspettative. Il 26 agosto del '17 riferisce: "l'offensiva da diversi giorni iniziata procede benissimo; a giorni anche voialtri saprete le formidabili posizioni prese, forse non esagero e se le cose procederanno sempre bene entreremo vittoriosi a Trieste; i mezzi a nostra disposizione sono potentissimi; è una preparazione potentissima, mai vista. L'azione continua su tutto il fronte con massima violenza. Forse questa sarà la grandiosa battaglia della Vittoria". In ottobre l'illusione finisce a Caporetto.

Sono i disastri della guerra e in novembre Socrate scrive: "quanto ha sofferto il mio povero cuore nel vedere famiglie intere abbandonare i loro beni, il loro sostegno, nel vedere bambini che piangevano per mancanza di tutto, donne che si strappavano i capelli pensando all'ignoto che gli si affacciava e tutto questo per colpa dei tedeschi che ove arrivano fanno strage, saccheggiano, maltrattano gli inermi e gli scherniscono". E in una frettolosa cartolina: "dopo tanto tempo finalmente posso darvi mie notizie. Comprendo l'ansia che sarete stati in questi giorni, ma come fare? Anch'io, sapete, sono stato male pensando continuamente a voi, vedendo intere famiglie abbandonare i beni per mettersi in luogo sicuri, vedere bimbi intirizziti dal freddo che nella confusione avevano perduto i genitori…Bisogna pregare Iddio che ci protegga e aiuti le nostre armi che hanno dovuto subire una sconfitta". Anche Socrate sta dentro il conflitto e parteggia per "noi", come se le armi fossero un mezzo voluto da dio. Ma si rende conto dell'alienazione sociale: "mi dispiace di sentire che in città nessuno si rende conto di ciò che al fronte succede, che in tutti i divertimenti debbano rigurgitare di persone mentre dovrebbero cooperare coi loro fratelli, coi loro figli, che al fronte soffrono disagi, versano il sangue… Tutta la nazione dovrebbe condurre una vita ritirata…".

Le persone sensibili soffrono e nemmeno i soldati si vergognano di dire che piangono. E che hanno bisogno di risarcimenti affettivi: "non potete credere che emozione abbia provato per le vostre belle parole; non ho fatto altro che piangere, anzi sono andato a nascondermi per non essere visto e là mi sono messo a piangere come un bambino…". La guerra non l'ha indurito: più volte indulge alle lacrime, si ricorda del padre di cui forse ha più memoria del fratelli minori e che "vigila sempre su di noi", sottolinea più volte le buone relazioni che ha con gli altri ("l'affetto dei miei superiori e dei miei compagni, anzi potrei chiamarli tutti fratelli…").

E' rimasto un uomo gentile, onesto, un uomo di pace nonostante viva la guerra fino a morirne. Da tempo si faceva carico dei dissapori tra i fratelli più piccoli e aveva scritto a mio padre, che era il fratello mediano: "Carissimo Duilio, or ora ho ricevuto lettera dal nostro caro Armando (anche lui chiamato soldato), il quale si lamenta con me perché dal giorno che è partito da casa non ha mai ricevuto tuoi scritti: perché questo silenzio? Ti dimentichi forse dei tuoi fratelli che tanto bene ti vogliono e che tanto hanno fatto per te? Oh! Duilio, se questo rispondesse a verità sarebbe una cosa che non va, una cosa che in questi momenti…ogni odio, ogni divergenza deve sparire; la buona armonia e la cordialità deve regnare negli animi. Se qualche volta è successo qualche battibecco, qualche bisticcio, oggi non ci si deve far caso, oggi tutto deve sparire. Dunque, Duilio caro, se mi vuoi contento, scrivigli, e anche subito, perché non puoi credere che bisogno di scritti si senta nella lontananza dalle persone care; anzi lui, poverino, che era tanto attaccato alla mamma, chissà che noviziato avrà fatto a rimanere solo, vivere solo, lontano dai suoi cari; dunque non ti pare che abbia bisogno di conforto e di aiuto? Bisogna cercare di consolarlo, cercare di animarlo a compiere il proprio dovere, cercare che non sia preso dalla nostalgia della famiglia. Dunque, hai capito? Oltre a me farebbe anche dispiacere alla nostra buona mamma, la quale poveretta tanti sacrifici fa per noi, essa che, poveretta, oggi soffre la mancanza di due suoi figli, ha bisogno di aiuto e allegria, sicché tu cerca di rallegrarla e renderla contenta; cerca in quei momenti di nostalgia di consolarla con buone parole e con buoni fatti. Essa, poveretta, è debole e già troppo malata, ha bisogno di riposo, di mangiare e bere e stare allegra. Dunque cerca tu di fare ciò. Anch'io, sai, sapesti quanto soffro, eppure nei miei scritti non lo dimostro mai, e sempre per far contenta la mamma, sempre per far contente quelle persone che per me sono tanto care. Vedi, io mi sacrifico, faccio dei miracoli per contentare Armando, perché anche lontano non si privi delle sue voglie, oggi stesso ha inviato un vaglia di lire dieci: è poco, ma questo dimostra il mio buon cuore; dunque, Duilio, tu che sempre stato buono spero farai quanto ti dico, anzi mi darai assicurazione di aver fatto quanto detto sopra. Oggi dirai alla mamma che ho ricevuto la sua cartolina e lettera, che la ringrazio tanto; me la saluterai tanto, anzi gli darai un bacio per me. salutami tutte le altre persone che in altri tempi abbiamo passato belle serate assieme e te ricevi un affettuoso saluto, con unito circa un milione di baci. Scrivi presto, mi dirai se avete ricevuto le mie due lettere precedenti a questa. Tuo aff. mo Socrate".

Per Duilio questa lettera deve essere stata riletta con qualche senso di colpa. Infatti, se l'ultimo scritto è una cartolina - una di quelle in distribuzione con la stampa "dell'esercito italiano" - datata il giorno stesso della morte ("ricordandovi sempre con affetto, vi invio cari ed affettuosi saluti" ), tuttavia più emozionante è la lettera del 26 aprile che, dopo una lunga richiesta di informazioni su amici dai quali attende maggior sollecitudine di notizie, ritorna alle raccomandazioni perché Armando, - che lui stesso "sapendolo giovine di anni e di vita, cercherò del mio meglio nel consigliarlo verso il bene" - non sia lasciato solo e raccomanda all'anima del padre "di prendersene cura" (non deve essere andata così bene, perché, passato poco tempo, il fascismo divise irrimediabilmente i fratelli). Ma è l'inizio che commuove, perché direttamente dice: "Oggi finalmente ho ricevuto la vostra tanto gradita lettera e godo di sapervi tutti in discreta salute: sarà poi vero? Ne ho tanto, tanto bisogno di vostri scritti, la mancanza di questi mi rendono nervoso, perché i più brutti pensieri mi passano per la mente, penso sempre a male e perciò non desidero altro che i vostri scritti".

Poco più di un mese dopo sarebbe morto e mio padre lo avrebbe rimpianto a lungo, in silenzio, ma cercando in ogni modo che non fosse dimenticato. Io lo conosco giusto un secolo dopo, per la memoria di questi scritti, raccolti anche a questo fine. Peccato non averlo mai, finora, chiamato zio.

15 agosto 2014