L'interventismo democratico
L’INTERVENTISMO DEMOCRATICO
DAL RISORGIMENTO ALLA RESISTENZA
Ancora oggi, dopo cento anni, l’interventismo democratico è vittima di una reticenza storiografica che l’ha confinato ai margini della cultura politica italiana. Le ragioni sono facilmente spiegabili: la storiografia cattolica all’ombra dell’inutile strage, la liberale all’ombra del neutralismo giolittiano, la socialista all’ombra del neutralismo turatiano e la comunista all’ombra dell’internazionalismo marxiano, hanno tutte proseguito oltre il biennio 1914-15 la lotta culturale e politica contro il fenomeno interventista. Questo variegato fronte storiografico neutralista, diviso nelle ispirazioni culturali e nei fini politici, si è ritrovato unito nel condannare tutto l’interventismo come l’antecedente storico e politico del fascismo. L’interventismo democratico, di conseguenza, è stato travolto e stravolto dall’equazione “interventismo uguale a fascismo”.
Si potrebbe obiettare che non è il 1914 a preparare il 1922, che il Mussolini interventista non è ancora il duce della marcia su Roma, che non tutti gli interventisti indossano a guerra finita la camicia nera; ma qui non si vuol fare una difesa d’ufficio dell’interventismo mussoliniano, molto più complesso per le implicazioni ideologiche e per la parabola socialista del personaggio di come sia stato interpretato dalla letteratura storiografica a cominciare dallo stesso De Felice. Si ritiene invece opportuno recuperare una tradizione politica dalle prigioni dell’oblio per restituirla finalmente alla libera circolazione delle idee. Ed è forte il sospetto che la vicenda del Mussolini interventista sia stata intenzionalmente utilizzata proprio per colpire e annullare l’interventismo democratico, naturalmente contrapposto al neutralismo e contemporaneamente alternativo al filone nazionalista e a quello mussoliniano del movimento interventista.
A questo punto è finalmente possibile tagliare il nodo che ha fatto di tutto l’interventismo un fascio e soffermare l’attenzione sull’interventismo democratico, sulle sue origini culturali e le sue evoluzioni politiche nella storia italiana che dal Risorgimento giunge alla Resistenza.
L’interventismo democratico, infatti, è l’erede storico di quel movimento democratico rivoluzionario che nel 1848 lega la questione nazionale alla questione sociale, il Risorgimento della Nazione al Risorgimento delle masse. I fratelli Bandiera e Carlo Pisacane, Bianco e De Cristoforis, Ferrari e Montanelli sono le forze vive di questo movimento rivoluzionario ispirato dal pensiero del Mazzini e dall’azione del Garibaldi. Queste forze del pensiero e dell’azione sprigionano energie politiche che si compongono in quella democrazia sociale che considerava la redistribuzione delle ricchezze come premessa necessaria al rinnovamento della Nazione.
Guerra di popolo, assemblea costituente, capitale e lavoro nelle stesse mani furono le formule programmatiche del movimento democratico rivoluzionario che, deluso dagli esiti del 1860 e dal mancato Risorgimento delle masse per opera dello Stato liberale, tuttavia non si arrese e si coagulò nel 1862 a Genova attorno a Mazzini e Garibaldi fondando l’Associazione Emancipatrice Italiana che si batterà per il suffragio universale, l’istruzione obbligatoria, l’aumento salariale, la riduzione dell’orario di lavoro, l’attuazione del cooperativismo e del mutualismo.
Soppressa dal governo liberale con le fucilate d’Aspromonte, l’Emancipatrice riuscirà a diffondere nella politica italiana quei fermenti operaistici e solidaristici democratici che, distanti dall’anarchismo e distinti dal marxismo, si organizzeranno anch’essi all’Estrema della sinistra costituzionale. Da qui scaturirà la protesta radicale e repubblicana con Felice Cavallotti e Napoleone Colajanni, il Fascio della Democrazia e i Fasci Siciliani dei Lavoratori: polo nord e polo sud della rivoluzione democratica italiana.
È da quest’ambiente storico, culturale e politico che proviene la generazione dell’interventismo democratico. Ostile verso Giolitti, intransigente verso Turati, insofferente verso il socialismo rivoluzionario scientificamente vincolato al dogma della lotta di classe e tuttavia incapace d’agire, la generazione democratica di Gaetano Salvemini, Riccardo Bauer, Aldo Rosselli, Guido Dorso, Ferruccio Parri, Silvio Trentin, Emilio Lussu, Francesco Fancello, Alberto Cianca, Piero Calamandrei rappresenta nel primo Novecento quella certa idea della democrazia politica e della democrazia economica sopravvissuta alle persecuzioni della Destra storica, alle seduzioni del trasformismo, alle repressioni crispine, al tentativo autoritario di fine secolo, alla dura competizione con il positivismo socialista, con il darwinismo nazionalista, con l’utilitarismo liberista. E vedrà, questa generazione, nella Grande Guerra, la grande occasione di completare finalmente il Risorgimento. Questo è il punto cruciale dell’intera vicenda politica e culturale dell’interventismo democratico.
La storiografia neutralista, scandalosamente in accordo con la storiografia nazionalfascista di Gioacchino Volpe, interpreterà il concetto di completamento del Risorgimento con la liberazione di Trento e Trieste; così come la storiografia sabauda aveva interpretato la ripresa dell’iniziativa democratica del 1862 con la liberazione di Roma. Si tratta, però, d’interpretazioni semplicistiche che riducono il compimento del Risorgimento a una nozione geografica, a una ragione territoriale, a un fatto di confine escludendone il significato storico e politico. Si dimentica che Roma era la Terza Roma, la Roma del popolo, la Roma della Repubblica del 1848 democratica e sociale, alternativa alla piemontizzazione cavouriana e liberale. Roma era l’altra Italia, quella della Costituente e del lavoro. Anche Trento e Trieste erano l’altra Italia: l’Italia che intendeva liberare le nazionalità oppresse dall’impero asburgico e dall’impero turco, che intendeva compattare Adriatico e Tirreno in quel Mediterraneo democratico e dunque alternativo al liberismo dell’Atlantico; e questa politica estera rivoluzionaria che ripropone sulla scena l’Europa dei popoli e la missione della democrazia, presuppone una nuova politica interna: democratica e sociale. Era qui il punto d’origine dell’irredentismo democratico, dell’interventismo democratico: la Grande Guerra come grande occasione del Risorgimento delle masse, in Italia e in Europa. Furono il nazionalismo oltranzista e il tradimento del Patto di Londra che travisarono tutto aprendo la via al mito della vittoria mutilata sfruttato dai nazionalisti e dai fascisti per conquistare la piazza. Liberate dall’oppressione asburgica e turca, le masse piombarono nella catastrofe totalitaria. L’Italia transitò da Cavour a Mussolini tramite Giolitti e Sonnino. Ancora una volta la rivoluzione democratica era sconfitta. L’interventismo democratico, che aveva percorso quel tratto di storia con il socialismo bissolatiano, si ritrovò nel “Quarto Stato” e nel “Non Mollare”, nella protesta amendoliana e nella proposta rosselliana. E ancora una volta fu Guerra di popolo e Costituente, democrazia politica e democrazia economica, Giustizia e Libertà.
Trent’anni dopo, nel 1945, la generazione dei Lombardi, degli Aniasi, dei La Malfa, dei Valiani, dei Calogero vedrà nella Resistenza il compimento del Risorgimento. Ma la rivoluzione democratica sarà fermata dal compromesso tra est e ovest; tra socialisti e comunisti da una parte, liberali e democristiani dall’altra. La caduta del governo Parri e la fine del Partito d’Azione bloccheranno la rivoluzione democratica e trasformeranno la Costituzione del 1948 nell’autunno della Resistenza.
Riscoprire la storia dell’interventismo democratico significa recuperare una certa idea della democrazia, una certa idea della lotta politica e sociale, una certa idea dell’Italia che si contrappone nettamente alla solita Italia: all’Italia che, direbbe Giovanni Amendola, così com’è non ci piace. E sia questo il motto di una nuova stagione radicalmente interventista e democratica: gli esempi e le idee non mancano. Come sempre è questione di volontà.
Michelangelo Ingrassia
Fiap Palermo