L'anniversario dell'eccidio
71° Anniversario dell’Eccidio – 42 Martiri di Fondotoce – 17 Martiri di Baveno
discorso del Presidente Nazionale della FIAP Mario Artali
Fondotoce 21 giugno 2015
Fondotoce è uno dei luoghi più significativi in quel lungo elenco di stragi e di efferate violenze subite che ha caratterizzato dal 1943 al 1945 la lotta per la libertà.
Basta quella terribile immagine del corteo dei condannati a morte costretti ad esibire un cartello irridente per colpire ciascuno di noi al di là di tutte le narrazioni.
È l'inizio dell'estate del 1944. In Val Grande i combattimenti tra partigiani e nazifascisti si fanno più intensi, le formazioni dei ribelli prendono coscienza della propria forza che Ii avrebbe portati a breve a dare vita a quell'esperienza democratica che fu la libera Repubblica dell'Ossola.
Quarantatre partigiani arrestati nel corso di un rastrellamento sono destinati a diventare martiri, in un gesto di insulto alla dignità umana che voleva essere di monito alla popolazione locale perché non appoggiasse gli antifascisti e che invece resta come emblema della violenza e della barbarie del nazifascìsmo.
Quarantadue uomini e una donna, la maestra Cleonice Tomassetti, sono detenuti nell'asilo infantile di Malesco. Qui, nei locali un tempo affollati dai bambini, in due muoiono sotto le torture ma altri ne arrivano e sono quindi di nuovo quarantatre ad essere trasferiti a Villa Caramora a Intra. È il primo pomeriggio del 20 giugno 1944, quando ha inizio una particolare processione.
In testa il tenente Enzo Rizzato, della divisione partigiana Valledossola, sfigurato dalle torture e Cleonice Tomassetti, colpevole di incitare i compagni a morire con dignità. Accanto a loro altri due partigiani reggono un cartello con la scritta "sono questi i liberatori d'Italia o sono banditi?”. l tedeschi li tengono sotto stretto controllo, nessuno può avvicinarsi a loro. ll percorso obbligato attraversa tutti i paesi tra lntra e Fondotoce. La camminata è lunga e lenta, il pomeriggio afoso, i volti dei partigiani coperti di sangue, le loro gambe trascinate per le percosse subite.
lntra, Pallanza, Suna e poi ogni agglomerato di case sparse a cui riproporre la scena, la sfilata dei condannati a morte. I paesi sembrano abbandonati, le finestre sbarrate, le cascine deserte, solo dall’ombra la popolazione osserva la scena.
Dopo circa tre ore i 43 condannati raggiungono Fondotoce e vengono portati sul greto del canale che congiunge il Lago di Mergozzo al Lago Maggiore. A tre per volta vengono fucilati alla schiena. Risuona come un'eco l'ultimo grido "Viva I'ltalìa libera”, nelle voci di Rizzato, di Cleonice Tomassetti e degli altri.
Accenti diversi scandiscono la lotta comune di un popolo intero contro la violenza e la sopraffazione, muoiono diversi ragazzi siciliani, ex soldati del Regio esercito, e poi operai,contadini e pescatori da mezza Lombardia.
Tra i corpi passa un ufficiale tedesco a sparare l'ultimo colpo. È sera. I nazisti se ne vanno lasciando i corpi all'aria e un contadino si avvicina. Rivolta ad uno ad uno i partigiani senza vita, ma uno respira ancora, Carlo Suzzi. Lo raccoglie, Io cura, Io nasconde e Suzzi rinasce con un nuovo nome di battaglia, Quarantatrè, con il quale riprenderà la via dei monti.
Il giorno dopo, nel tardo pomeriggio, l’eccidio di Baveno. 17 ragazzi, arrestati in Valgrande e scampati alla fucilazione di Fondotoce, vengono assassinati sul lungolago. Sepolti in una fossa comune il giorno dopo, restano – ben 11 su 17- non identificati.
Oggi siamo qui per onorarli tutti.
Sono trascorsi settantuno anni da quel terribile e lunghissimo 1944. Non moltissimi sono ormai coloro che possono testimoniare avendo partecipato a quegli eventi.
Un po’ di più – ed io tra quelli- coloro che hanno avuto il privilegio di ascoltare dai protagonisti il racconto di quelle vicende, primo fra tutti, nel mio caso, Aldo Aniasi, il comandante Iso nella Resistenza e poi grande Sindaco di Milano e fino alla sua morte Presidente della Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane.
Ho ritrovato – e credo esprima al meglio quello che proviamo - ciò che qui disse il 18 giugno del 2000 “Iso” Aniasi: “ in questo luogo sacro rendiamo onore alle 42 vittime dell’eccidio di quel 20 giugno, ci inchiniamo davanti al muro che accoglie le targhe degli oltre 1000 partigiani caduti nella provincia di Novara, del Cusio, del Verbano e dell’Ossola”.
Tragedie: lungo è l’elenco in quel 1944 iniziato con ben altre speranze. Già il 2 gennaio a Boves nuova rappresaglia e nuovo incendio del paese.
Impossibile anche solo fare l’elenco delle devastazioni, massacri, deportazioni, fucilazioni ed impiccagioni.
E non c’è solo questo in quel terribile e lunghissimo anno. C’è la lenta, troppo lenta avanzata degli alleati dal Sud, fino, nel novembre di quel 1944, all’invito del generale Alexander a interrompere operazioni su vasta scala in attesa della ripresa dell’offensiva alleata.
Eppure è su questo terribile sfondo che nel 1944 prosegue il risveglio che era iniziato dopo l’8 settembre del 1943.
Ufficiali e soldati che scelgono di non gettare le armi e di lottare per la libertà e donne e giovani che si uniscono a loro nelle formazioni partigiane.
Viene ancora sottovalutata l’efficacia che ebbe la Resistenza dal punto di vista militare, ma come la guerriglia fosse importante e come la strage di civili fosse uno strumento essenziale nella repressione antipartigiana lo conferma lo stesso maresciallo Kesserling , che non a caso dal maggio ’44 assume in prima persona la guida di tali azioni, prima affidata al comando supremo delle SS.
Scrive Kesserling nelle sue “Memorie di guerra”: “La lotta contro le bande doveva venir posta tatticamente sullo stesso piano della guerra al fronte (…) Costituire una percentuale di ostaggi in quelle località dove risultino essere bande armate e passare per le armi detti ostaggi tutte le volte che nelle località stesse si verificassero atti di sabotaggio (…) Compiere atti di rappresaglia fino a bruciare abitazioni poste nelle zone dove siano sparati colpi d’arma da fuoco contro reparti o singoli militari germanici. Impiccare nelle pubbliche piazze quegli elementi riconosciuti responsabili di omicidi e capi di bande armate.” (Albert Kesserling, Memorie di guerra, Garzanti,1954, p.260).
E’ sempre il nostro “Iso” che ce lo ricorda nel suo libro di memorie “Ne valeva la pena – dalla Repubblica dell’Ossola alla Costituzione della Repubblica “:
“Sappiamo dai documenti dello Stato Maggiore delle forze armata della Germania Federale che almeno 10 divisioni tedesche furono distolte dalla guerra contro gli alleati per fronteggiare i partigiani, per difendere le comunicazioni ferroviarie e stradali, per proteggere le retrovie, per impedire i sabotaggi e le imboscate al trasporto dei rifornimenti.”
Più di 70000 caduti, 387 medaglie d’oro, 852 medaglie d’argento non sono certo una semplice affermazione politica.
Siamo di fronte ad un fenomeno che nelle sue dimensioni ha pochi paragoni con quello che avviene negli altri paesi occupati dai tedeschi.
E’ per tutto ciò che non possiamo limitarci al ricordo, che è alla base ma non esaurisce il nostro compito.
Quando, conquistata la libertà, i partigiani considerarono doveroso proseguire il proprio impegno, lo fecero proprio nel nome di coloro che nella lotta avevano perso la vita, ed alcuni degli obiettivi – i grandi obiettivi - che si erano posti furono conseguiti.
Ne cito due.
Il primo: porre le condizioni per la rinascita della Patria. Aveva ragione Carlo Azeglio Ciampi quando rifiutava la definizione dell'8 settembre come "Morte della Patria", e replicava che quel giorno è morta una certa idea di Patria, quella fascista, e ne è nata un'altra, quella libera e democratica.
Ricordo Pietro Nenni scandire : “la Resistenza, senza di cui saremmo passati senza un fremito di orgoglio dall’una all’altra occupazione militare straniera” o basta rileggere il discorso -10 agosto del 1946 -di Alcide De Gasperi alla Conferenza di Pace di Parigi in cui critica la “formulazione così stentata ed agra” della cobelligeranza: “delle Forze armate italiane hanno preso parte attiva alla guerra contro la Germania”.
De Gasperi scandisce: “Delle Forze ? Ma si tratta di tutta la marina da guerra, di centinaia di migliaia di militari per i servizi di retrovia, del “Corpo Italiano di Liberazione”, trasformatosi poi nelle divisioni combattenti e “last but non least” dei partigiani, autori soprattutto dell’insurrezione del nord. Le perdite nella resistenza contro i tedeschi, prima e dopo la dichiarazione di guerra, furono di oltre 100 mila uomini tra morti e dispersi, senza contare i militari e civili vittime dei nazisti nei campi di concentramento ed i 50 mila patrioti caduti nella lotta partigiana.”
De Gasperi sottolinea in questo modo le ragioni per cui l’Italia sarà l’unico dei paesi dell’Asse che non subirà lunghi “protettorati”, si veda il Giappone, o vere e proprie spartizioni , e si veda la Germania.
Difficile quindi sostenere che la Resistenza è stato fenomeno di scarso rilievo ed efficacia.
Il secondo risultato: i principi, le basi culturali e morali della Costituzione repubblicana, che vengono senza dubbio alcuno dai principi delle moderna libertà –quelli della rivoluzione francese- arricchiti dai frutti migliori delle culture liberali, cristiane, socialiste. Sarebbe stato possibile senza la Resistenza nel suo complesso, ed anche senza quei fiori di libertà nelle condizioni più proibitive che vanno sotto il nome di “Repubbliche partigiane”?
Certo, il cantore della Costituzione, Piero Calamandrei, ha poi dovuto battersi per buona parte della sua vita per la trasfusione di quei principi in norme, ma questo è in qualche misura inevitabile al mutare degli equilibri politici. E su questo ognuno è libero di conservare la propria opinione – la differenza di posizioni senza egemonie o leadership precostituite è il sale della libertà- ma nello stesso tempo la varietà delle posizioni non deve impedirci di lavorare insieme per il massimo di unità.
Sento citare spesso Piero Calamandrei ma quasi nessuno ricorda quello che Calamandrei pensava e come votò nella Commissione che redasse la Costituzione. Ricordo qui solo che disse (citazione testuale)"Il problema fondamentale della democrazia, cioè il problema della stabilità del governo; nel progetto di costituzione di questo non c'è quasi nulla"
Commentava anni dopo un altro illustre giurista e valoroso partigiano, Giuliano Vassalli –organizzatore tra l’altro nel gennaio del 1944 dell’evasione di Sandro Pertini e Giuseppe Saragat dal carcere di Regina Coeli –parlando in un convegno della Fiap a Salice Terme il 13 aprile 1997 : “Parole di grande realismo e che sembrano quasi profetiche quando si pensa a ciò che è accaduto in Italia per cinquant'anni, con cinquantatré governi, e a quello che è uno dei tormenti delle riforme oggi in gestazione.”
Ma non è questa la sede per entrare nel merito di questioni di questo tipo, su cui, appunto, la articolazione del dibattito non è solo lecita: è indispensabile in democrazia.
Il terreno su cui tocca a noi ritrovare la più ampia unità è quello di una visione della Resistenza che esca definitivamente da semplificazioni e schematizzazioni e che ci aiuti a farne davvero il cemento comune della nostra Patria.
Ed anche su questo consentitemi citazioni, credo al di sopra di ogni sospetto.
La prima , su come è nata la Resistenza è ancora di Piero Calamandrei. (Milano, Teatro Lirico, 28 febbraio 1954.)
“Cominciò così, – cito Calamandrei -quando il fascismo si fu impadronito dello Stato, la Resistenza che durò venti anni. ……Non si combatteva più sulle piazze, dove gli squadristi avevano ormai bruciato ogni simbolo di libertà, ma si resisteva in segreto, nelle tipografie clandestine dalle quali fino dal 1925 cominciarono ad uscire i primi foglietti alla macchia, nelle guardine della polizia, nell’aula del Tribunale speciale, nelle prigioni, tra i confinati, tra i reclusi, tra i fuorusciti. E ogni tanto in quella lotta sorda c’era un caduto, il cui nome risuonava in quella silenziosa oppressione come una voce fraterna, che nel dire addio rincuorava i superstiti a continuare: Matteotti, Amendola, don Minzoni, Gobetti, Rosselli, Gramsci, Trentin. Venti anni di resistenza sorda. Ma era resistenza anche quella: e forse la più difficile, la più dura e la più sconsolata.”
Una cosa vorrei aggiungerla. Pochi giorni orsono sono stati ricordati Carlo e Nello Rosselli, assassinati il 9 giugno 1937 a Bagnoles sur l'Orne dai sicari francesi del fascismo.
Assassinati non solo per la milizia di Carlo Rosselli nella guerra di Spagna, dove si saldò, tra l’altro, quel clima di particolare rispetto tra orientamenti diversi - specie tra quelli più legati ad ideali di libertà e di autodeterminazione- ma anche per l’annuncio –che era allora solo speranza ed impegno- “Oggi in Spagna, domani in Italia”, come Carlo scandì da radio Barcellona il 13 novembre del 1936.
Una Resistenza figlia dell’antifascismo, della rinascita della aspirazione alla libertà ed alla democrazia, ma insieme fenomeno più vasto e complesso.
Non ci furono solo partigiane e partigiani nella Resistenza: ci furono i militari internati, che rifiutarono –circa il 90% lo fece – la libertà con la RSI , ci furono i soldati che risalirono la penisola combattendo insieme agli alleati o all’estero, la Marina –del cui sacrificio poco si ricorda- e l’Aviazione.
Ciò che questo significa lo dice molto bene, in un recentissimo intervento, Giorgio Napolitano:
“il recupero e la valorizzazione di dimensioni a lungo gravemente trascurate del processo di mobilitazione delle energie del paese che si dispiegò per difendere l’onore e riconquistare la libertà e l’indipendenza dell’Italia: la dimensione cioè del contributo dei militari, sia delle forze armate coinvolte nella guerra fascista e poi schieratesi eroicamente (basti fare il nome di Cefalonia) contro l’ex alleato nazista, sia delle nuove forze armate ricostituitesi nell’Italia liberata (che ebbero a Mignano Montelungo il loro battesimo di fuoco). L’immagine della Resistenza si è così ricomposta nella pluralità delle sue componenti: quella partigiana, quella militare, quella popolare.”
Questo è il nostro compito, lontani ormai dal quadro del dopoguerra, da quella divisione del mondo in blocchi, in un quadro di problematiche ugualmente complesse ma in larga parte diverse.
Tocca a noi il compito della ricomposizione della memoria e, finalmente, una efficace opera di informazione e di formazione soprattutto nei confronti dei giovani e nelle scuole: non mi pare abbiamo modo più efficace di onorare i nostri caduti.