Resistenza
Resistenza, quel «Viva l’Italia» che ancora divide il Paese
di ALDO CAZZULLO
Partigiani in Piazza del Duomo a Brescia il 25 aprile 1945
Diffido dei perseguitati di professione, ma se pubblicassi i messaggi, le lettere anonime, le mail di minaccia e di ingiuria che ho ricevuto da quando un anno fa è uscita la prima edizione di questo libro sulla Resistenza, entrerei di diritto nella categoria.
È incredibile quanto astio, quanto odio, quanti pregiudizi ideologici — di destra e di sinistra — circondino ancora la giusta, quasi ovvia, per quanto coraggiosa e preziosa, reazione del popolo italiano alla brutale occupazione nazista tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Ovvia, perché il fatto che fosse giusto combattere l’invasore è considerato un’ovvietà in tutti i Paesi occupati dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, tranne che nel nostro. Coraggiosa, perché ci voleva molto coraggio a non rispondere ai bandi di arruolamento del generale Graziani, a nascondersi nelle città e sulle montagne, consapevoli che essere scoperti significava andare incontro alla tortura e alla morte. Preziosa, perché la libertà e la democrazia cominciano davvero in Italia soltanto dopo la Resistenza: il vero suffragio universale, con il voto alle donne, è del 1946, perché nella Resistenza le donne avevano avuto un ruolo fondamentale nella conquista della libertà e della democrazia.
Certo, i tedeschi furono sconfitti dalla Quinta Armata. Ma se noi italiani abbiamo potuto scrivere la nostra Costituzione, a differenza di altri popoli vinti — la Costituzione giapponese fu scritta dagli americani —, è perché c’era stata la Resistenza. Per quale motivo allora è così difficile riconoscere i valori e le conquiste della Resistenza come patrimonio comune? Da dove nascono le minacce e le ingiurie, l’astio e l’odio? Da due fattori, credo.
La storia nazionale infiamma gli italiani, li commuove, li indigna, li emoziona, soprattutto quando incrocia la storia delle loro famiglie. In ogni famiglia è custodita la memoria di un antenato che ha contribuito a fare l’Italia, spesso confermata da lettere, cimeli, medaglie, divise, fotografie: è il nostro altare domestico, sono i nostri lari e i nostri penati. Questo è giusto, è bello: la patria è la terra dei padri, l’amor di patria — diceva Giovanni Paolo II, che amava profondamente la Polonia ma considerava l’Italia una seconda patria — è un’estensione del quarto comandamento: onora il padre e la madre. Ma questo presenta una controindicazione. Molti hanno avuto il padre o la madre o i nonni fascisti, anche dopo l’8 settembre. E dire: «Mio padre, mia madre, i miei nonni non avevano gli strumenti che oggi noi possediamo per farsi un giudizio, non sapevano di Auschwitz, erano cresciuti con il regime, erano convinti che il fascismo fosse l’Italia, e pagarono il conto della storia, facendo in buona fede una scelta sbagliata», tutto questo è un ragionamento complesso, o comunque è un ragionamento. La scelta invece avviene d’istinto: era mio padre, mia madre, mio nonno, e quindi aveva ragione; se poi scopro che anche dall’altra parte c’erano persone che commisero errori e talvolta orrori, è facile arrivare dritti alla grande semplificazione: «Siamo stati tutti fascisti, ci siamo uccisi tra di noi, non esisteva una parte giusta e una parte sbagliata». Ma non è questa la storia d’Italia.
C’è poi un altro fattore, non meno importante, che rende difficile a una platea ampia se non unanime riconoscersi nella Resistenza; ed è l’uso di parte che ne è stato fatto. La Resistenza è stata vittima di un grande imbroglio ideologico. I partiti se ne sono impossessati, come se l’avessero fatta loro. E l’hanno usata come foglia di fico per nascondere le loro operazioni di potere, i loro legami con potenze straniere, talvolta i loro furti. Tuttora la Resistenza è spesso considerata come una cosa solo «di sinistra»: fazzoletti rossi e Bella ciao. A una presentazione in una libreria di un quartiere popolare romano, un signore si è alzato inveendo: «Basta storie di suore e di preti! I tedeschi li abbiamo combattuti noi comunisti!». Ma anche questa è una semplificazione.
Non credo a una lettura ideologica della Resistenza. Certo, molti partigiani erano comunisti. Poi c’erano i monarchici, i cattolici, gli azionisti, gli anarchici, i socialisti. E c’erano soprattutto migliaia di ragazzi che di politica e partiti sapevano poco o nulla, sapevano solo che non volevano combattere per Hitler e per Mussolini, e andarono con le brigate Garibaldi non perché fossero comunisti o con gli azzurri non perché fossero monarchici, ma perché nel loro paese erano passati prima gli uni o gli altri. Molte bande partigiane sulle Alpi furono formate da militari, spesso insieme con i preti. I capi più combattivi erano sovente alpini, come Maggiorino Marcellin «Bluter» che comandava in Val Chisone, come Nuto Revelli reduce dalla Russia, come Enrico Martini «Mauri» che guidava gli azzurri delle Langhe, come il capitano Piero Cosa che fonda la banda della Valle Pesio insieme con sua sorella Ottavia.
Ma la Resistenza non è esaurita dalla lotta partigiana. Ci furono tanti modi di dire no ai nazifascisti. Operai che scioperarono per boicottare la produzione bellica tedesca. Imprenditori che rischiarono in prima persona per evitare la deportazione dei loro operai in Germania. Ferrovieri che rallentarono i treni per consentire ai deportati di saltare giù. Medici che firmarono certificati falsi pagando con la vita. E contadini che magari non amavano i partigiani, che avrebbero preferito restare tranquilli con la loro «roba» cui erano ancestralmente legati, ma che messi di fronte alla scelta se aiutare i nazisti o i ribelli che avrebbero potuto essere — e a volte erano — i loro figli, non esitarono a prendere la decisione più rischiosa.
La Resistenza fu fatta anche dalle donne, come Cleonice Tomassetti, che ai torturatori dice: «Se volete mortificare il mio corpo, è superfluo il farlo, esso è già annientato; se invece volete uccidere il mio spirito, quello non lo domerete mai». Dai sacerdoti, come don Ferrante Bagiardi, che quando vede fucilare 82 suoi parrocchiani sceglie di morire con loro, dicendo: «Vi accompagno io davanti al Signore». Dalle suore, come Enrichetta Alfieri: al processo di beatificazione testimoniarono i prigionieri dei nazifascisti a san Vittore da lei aiutati, compresi due pericolosi rivoluzionari come Indro Montanelli e Mike Bongiorno. Dagli ebrei, come Emanuele Artom, che si batte perché il prigioniero fascista custodito dalla sua brigata non sia fucilato; e sarà proprio lui a additarlo alle SS come ebreo. Dai carabinieri, come i tre martiri di Fiesole — Vittorio Marandola, Fulvio Sbarretti, Alberto La Rocca —, ragazzi di vent’anni in divisa che scelgono di consegnarsi ai tedeschi per evitare la fucilazione di dieci ostaggi civili, e vanno a farsi uccidere in una domenica di agosto, in un pomeriggio pieno di sole, per salvare la vita di persone che non hanno mai visto. Nella liberazione di Alba cade il carabiniere Romano Scagliola: resta di lui la lettera in cui scrive alla sorella — torturata e accecata dai fascisti — che per la patria «bisogna essere pronti a sacrificare tutto, anche la vita».
Qui c’è un mistero, questo sì, affascinante. Dove trovano i resistenti il coraggio di opporsi alla macchina bellica nazista e alla ferocia delle bande di ventura fasciste? Dove trovano la forza di tacere sotto le torture? Credo che la ragione sia la fede nell’avvenire, la certezza della vittoria finale, la convinzione che il sacrificio non è vano perché servirà a costruire un’Italia migliore.
È lo spirito del 25 aprile di settantun anni fa. Giorni per altri versi terribili, di rese dei conti: perché la Resistenza ha avuto anche pagine nere, che per troppo tempo sono state rimosse e vanno riconosciute. Nel libro c’è un capitolo su Porzûs, dove partigiani comunisti agli ordini dei titini uccidono partigiani bianchi, tra cui Guido Pasolini; e c’è la lettera che Guido scrive al fratello, con un post scriptum in cui prima di andare a farsi ammazzare chiede scusa a Pier Paolo, che sa essere bravissimo scrittore, perché la lettera è mal scritta: «Non ho tempo di rileggerla, devo partire per la montagna immediatamente». Quello che vorrei salvare del 25 aprile è lo spirito di ricostruzione che ho trovato nelle parole di una donna, Anna Enrica Filippini Lera: arrestata a Roma, chiusa a Regina Coeli, deportata in Germania. Prima di salire sul vagone piombato che la porta verosimilmente alla morte, Enrica scrive una prima lettera al padre, lo conforta, gli fa coraggio, gli promette che tornerà. Ed Enrica si salva, sopravvive al lager, torna. Il suo fidanzato Paolo Buffa, che ha combattuto con gli inglesi con il nome di battaglia Paul Barton, requisisce una jeep per andare a cercarla in Germania, la troverà, la sposerà; è il caso di dire che vivranno felici e contenti, perché quando ho presentato il libro a Modena si è alzata una signora a dire «io la conosco Enrica, è la mia vicina di casa, ha cent’anni, mi dia il libro che glielo porto». Ebbene, appena libera, Enrica scrive al padre: l’Italia è a pezzi, ma la ricostruiremo; siamo giovani, pieni di entusiasmo, il lavoro non ci spaventa; «giorni luminosi ci attendono». Eravamo più di buon umore 71 anni fa, con un Paese in macerie, di quanto non siamo adesso. Eppure anche nell’Italia di oggi si avverte l’esigenza di ricostruire: radici, identità, valori, memoria. Non credo alla memoria condivisa. La memoria di chi ha avuto le case bruciate a Boves, a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema, a Gubbio non può essere la stessa di chi quelle case ha bruciato o aiutato a bruciare. Credo si possa arrivare a una conclusione condivisa: pietà per tutte le vittime; comprensione per la buona fede di molti tra coloro che fecero la scelta sbagliata; superamento della lettura ideologica della Resistenza, patrimonio della nazione e non di una fazione. Non un dogma di fede, ma storie vere, vicende di sacrificio e di coraggio, di uomini e di donne — moltissime donne — per cui l’Italia era una cosa seria, un ideale che valeva la vita. Come i fucilati del Martinetto, cui è dedicato il primo capitolo.
I capi della Resistenza piemontese vengono arrestati dai fascisti mentre sono riuniti non in una fabbrica occupata, non in una sezione del Pci, ma nella sacrestia del Duomo, con il consenso dell’arcivescovo. Tra loro c’è un comunista, Eusebio Giambone, un amico di Gramsci, un operaio che è stato tra i fondatori del partito ed è dovuto fuggire in Francia: suo fratello Vitale è morto in Spagna combattendo contro Franco, lui ha chiamato il primogenito Vital in suo onore, il bambino è morto di meningite; resta una bambina, Gisella, cui scrive una bellissima lettera in cui le raccomanda soprattutto di studiare (i condannati a morte della Resistenza hanno l’ossessione che i figli studino, per migliorare la loro condizione sociale ma anche per contribuire a rendere il Paese più giusto). Gli altri sono liberali, socialisti, azionisti, e soprattutto soldati: il tenente Silvio Geuna, il capitano Franco Balbis, il generale Giuseppe Perotti, gli ufficiali di complemento Errico Giachino e Massimo Montano. Tutti i militari hanno la pena di morte tranne Geuna, il più giovane, che si alza a offrire la propria vita in cambio di quella del generale Perotti, padre di tre figli; Perotti, che non vuole essere salvato, invita tutti ad alzarsi in piedi e a gridare con lui «Viva l’Italia!» (anche Giambone il comunista si alza con gli altri). È una scena che ho già raccontato altre volte, ma è una scena del tutto ignota alla stragrande maggioranza degli italiani. Io la trovo straordinaria. Un’immagine fondativa della Repubblica.
Il capitano Franco Balbis torna in cella e prima di essere fucilato scrive al padre la lettera da cui ho tratto il titolo del libro: «Possa il mio sangue servire per ricostruire l’unità italiana e per riportare la nostra terra a essere onorata e stimata nel mondo intero». La lettera è datata 5 aprile 1944. In quello stesso giorno un altro capitano dell’esercito italiano, Giuseppe De Toni, sta scrivendo al fratello dal lager di Hammerstein, dove ha scelto di restare per non andare a Salò a combattere altri italiani, e si dichiara pronto «a sacrificare tutto per un’Italia rispettata, onorata». Sono frasi che andrebbero imparate a memoria nelle scuole. Sono frasi che andrebbero fatte recitare a voce alta a ogni eletto in Parlamento e a ogni condannato per corruzione. Degli oltre 600 mila internati in Germania non si parla mai. Anche quella fu Resistenza. Dopo l’8 settembre morirono 89 mila soldati italiani: davanti ai plotoni d’esecuzione tedeschi come a Cefalonia, sui campi di battaglia accanto agli Alleati come i bersaglieri a Montelungo, oppure di stenti e di fame nei campi nazisti.
Sono andato a rileggermi Fiori rossi al Martinetto, il libro in cui il cattolico torinese Valdo Fusi racconta la morte dei suoi compagni. I parenti vanno a salutare i condannati e Paolo Braccini, veterinario, rappresentante del Partito d’azione, riconosce tra la folla la fidanzata. Le grida: «Ciao, cocca!». Lei risponde: «Forza Paolo, che muori per l’Italia! Penso io a tua madre!».
Ecco, nei momenti più difficili della crisi, nell’ora del degrado morale del Paese, non è inutile ricordare che non molto tempo fa sono esistiti italiani e italiane così.
24 aprile 2016
Corriere della Sera
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