La rivoluzione etica di Vittorio Cimiotta

Una guerra culturale e politica di Michelangelo Ingrassia

Docente di Storia Contemporanea

all’Università di Palermo

su : Vittorio Cimiotta, La rivoluzione etica. Da Giustizia e Libertà al Partito d’Azione, prefazione di Nicola Tranfaglia, Mursia, Milano 2013, pp. 368

Il resoconto di una guerra culturale e politica, combattuta con le idee e con le armi, in quel campo di battaglia che fu il Novecento totalitario, e lungo i sentieri montuosi che portarono alla Repubblica e alla Costituzione, negli anni che precipitarono dalla fondazione del movimento Giustizia e Libertà alla formazione del Partito d’Azione. Vittorio Cimiotta ripercorre quegli anni decisivi, quei sentieri tortuosi e insidiosi, quel campo di battaglia aspro e incenerito; indugia sul tormentato ed esaltante passato ma non distrae lo sguardo dalle macerie morali e materiali del presente. Esploratore del tempo, Cimiotta ricostruisce un’epoca e un’epica, la prosa e la poesia di quella certa idea dell’Italia che lotta contro l’Italia del fascismo e l’Italia del compromesso: l’eterna Italia del trasformismo, l’interminabile autobiografia della nazione. Pagine appassionate e appassionanti, quelle del suo libro, che foscolianamente esortano alla storia.

La passione è uno dei tanti sentimenti che caratterizzano le vicende storiche di Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione. Non il furore e il clamore urlato e scomposto di altre storie ma la passione, lo studio, la disciplina, il sacrificio, l’etica di uomini e donne che credettero, agirono e soffrirono senza arrendersi, nell’olocausto e nella diaspora dell’azionismo, bevendo fino in fondo la socratica cicuta di un Risorgimento tradito, di una Resistenza tradita, di una Repubblica e di una Costituzione tradite.

Il Partito d’Azione, con i suoi trentacinquemila partigiani delle formazioni Giustizia e Libertà, fu, nella lotta di liberazione, secondo solo al Partito Comunista in termini organizzativi e di partecipazione; il numero dei suoi caduti, rapportato alla cifra dei suoi effettivi, lo rende addirittura il primo partito della Resistenza.

E’ stato definito “il partito dei fucili” ma fu anche il partito degli ideali, delle idee che vogliono diventare azione: nazione armata, pensiero e azione, guerra e Costituzione, Mazzini, Pisacane, Cattaneo e Garibaldi; sono i momenti culminanti e le idee dominanti di questo partito la cui breve ma intensa esperienza intreccia idealmente, in un nodo tricolore, Risorgimento e Resistenza, Repubblica Romana e Repubblica Italiana, giustizia sociale e libertà nazionale, la biografia di una certa idea della Patria, l’Italia nuova.

Se il movimento fondato da Carlo Rosselli è l’antefatto del “partito nato per agire”, è necessario inoltrarsi nella foresta della storia per ricercare le radici da cui il Pda germoglia e che si ritrovano in quello che fu, parafrasando il titolo di un significativo libro di Alessandro Galante Garrone, «l’albero della libertà: dai giacobini a Garibaldi» (Firenze, 1987). Dal giacobinismo il Partito d’Azione attinge uno stato d’animo e un metodo: la tensione morale e il pragmatismo riformatore, per dirla con Piero Ignazi (I partiti italiani, Bologna, 1997); è invece dalla cultura politica italiana che il PdA trae aspirazioni e ispirazioni, a cominciare dal pensiero politico risorgimentale. La radice risorgimentale del partito è in quella democrazia rivoluzionaria che considera il Risorgimento una rivoluzione politica, sociale, morale. Il Pda s’ispira al socialismo militare (non militarista) di Garibaldi, al socialismo nazionale (non nazionalista) di Pisacane, alla democrazia dei doveri di Mazzini, alla democrazia federalista di Cattaneo. La radice antifascista del Partito d’Azione, ancor prima che in GL, è nel nucleo d’idee e uomini che si forma intorno alle riviste «Non Mollare!» e «Quarto Stato», originate dalla “protesta morale” contro il fascismo. Una protesta che intende tradursi in atto, con la mobilitazione del proletariato e dei ceti medi, e con l’innesto di contenuti sociali nella gobettiana rivoluzione liberale. E’ a quel punto che Carlo Rosselli può fare i conti con il marxismo ed elaborare il socialismo liberale mentre Guido Calogero getta le fondamenta del suo liberalsocialismo. La socializzazione dei mezzi di produzione e la collettivizzazione dei mezzi di produzione trovano così un denominatore comune nella libertà e nella democrazia. Il socialismo liberale di Rosselli e il comunismo liberale di Calogero trovano una sintesi liberale e democratica. Il Pda fu il rinnovamento delle grandi ideologie fermentate nell’Ottocento: socialismo, liberalismo, comunismo. Con il Pda esse diventano qualcosa di nuovo, d’inedito, di unico nel panorama delle culture politiche europee: diventano riformismo rivoluzionario. La rivoluzione non ha più bisogno della dittatura di classe per compiersi, il riformismo cessa di essere un’anchilosata pratica amministrativa per diventare slancio vitale, azione che sovverte, legge morale che crea istituti nuovi, forme nuove di convivenza politica ed economica. Se la rivoluzione si attua con le riforme, e se le riforme devono sovvertire l’esistente affermando quella democrazia politica ed economica fondata su eguaglianza e associazione, è necessario agire con volontà. Si potrebbe vedere, in questa frenetica ricerca dell’azione e della volontà, l’ombra di Sorel o di Nietzsche o di tutta la cultura dell’azione che fermenta nel primo Novecento; ma si rileggano le pagine di Carlo Rosselli, si riscopra l’amicizia umana e intellettuale del Mazzini col filosofo tedesco, si rivedano le gesta di un Pisacane e si scoprirà che dovere, volontà e azione sono fattori storici essenziali per una politica che, invece di ridursi a mera gestione contabile dell’esistente, vuole dare e preservare un destino di giustizia e di libertà ai popoli.

Nella prima parte del volume le questioni qui accennate sono affrontate non dal punto di vista della filosofia politica bensì da quello della storia politica. Una scelta condivisibile per un’opera che si propone (come scrive l’autore nell’introduzione) «una finalità didattica destinata prevalentemente ai giovani» (p. 17). L’analisi della scena politica, del resto, è il primo e più delicato momento della formazione culturale e richiede l’ausilio della storia come strumento interpretativo; acquisite le basi della storia politica è possibile, in un secondo tempo, introiettare la filosofia politica. E’ necessario “conoscere” prima Carlo Rosselli e il suo volontarismo per comprendere poi il senso di ciò che egli scriveva nel giugno 1934: «bisogna essere pronti a uccidere ancor più che a morire» (Quaderno di Giustizia e Libertà, n. 11, serie II); ancora qualche anno e poi il celebre «oggi in Spagna, domani in Italia», esclamato a voce alta dal fronte repubblicano della guerra civile spagnola. Siamo lontani dal mito fascista della bella morte cercata o procurata per “credere, obbedire e combattere”; e distanti dall’infelice scienza del fine che giustifica i mezzi. Qui c’è l’etica del combattimento tra l’essere e il non essere, la dura e faticosa intransigenza assoluta, il sacrificio dell’azione «d’uomini – scrisse Mazzini – che intendono a conquistarsi la libertà in nome e con le forze della nazione. Insorgete comunque; insorgete anche pochi» (Scritti editi e inediti).

Nel capitolo conclusivo della prima parte, il cui titolo riprende quello del libro, emergono la ragione, la missione, il sacrificio, la moralità della lotta portata fino alle estreme conseguenze: la rivoluzione etica è la trasformazione dell’egoismo in altruismo. Cimiotta lo spiega con efficacia: «l’alternativa è tra l’avere o l’essere, cioè tra l’egoismo o l’altruismo» (p. 184). Questo conflitto tra egoismo e altruismo caratterizza le pagine del libro, che trattano di ogni ambito della vita umana. Tutto dipende da quella scelta: istituzioni, forma e modello di Stato, sistemi economici, stile di vita individuale e collettiva, legislazioni, priorità dell’agenda politica. Per quella scelta rivoluzionaria ed etica bisogna essere disposti a morire ma anche ad uccidere.

La seconda parte del volume, affidata dall’autore alle penne di prestigiose figure che hanno realizzato il mosaico del ricordo collettivo, è dedicata agli uomini e alle donne che fecero quella scelta, che si batterono per l’altruismo, per l’essere: gli uomini e le donne di Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione; un monito per chi oggi è chiamato quotidianamente a scegliere. E chi sceglie l’altruismo trova nel libro un patrimonio di proposte, valori, programmi che furono del Partito d’Azione e che sono straordinariamente attuali; così come straordinariamente attuale è la Costituzione della Repubblica, che Cimiotta definisce «la migliore del mondo» (p. 17).

Quanto Risorgimento c’è nella Costituzione, quanta Resistenza, quanto Partito d’Azione; ma quanto abbandonata è la Costituzione, quanto tradita e violentata! Nella luce chiaroscurale dell’alba repubblicana Ferruccio Parri si batteva per unificare le forze dell’altruismo, teorizzava che l’unità della Resistenza doveva essere difesa a ogni costo perché diventasse il fondamento di quella rivoluzione democratica che l’Italia non aveva mai avuto; e che non ha ancora perché tradita dalla transigenza di chi scelse il compromesso, di chi accettò il bipolarismo mondiale, il connubio tra egoismo e altruismo, le consorterie e gli affari che portarono alla globalizzazione. In quel mondo dominato dai partiti e dai signori delle tessere, non c’era spazio per il Partito d’Azione. Nella prefazione Nicola Tranfaglia scrive che al Partito d’Azione sopravvisse la fede azionista e che «l’assenza di un partito della Costituzione ha eliminato gli anticorpi necessari a difendere la nostra democrazia» (p. 12). Qualcosa di simile era già accaduto all’indomani dell’unificazione nazionale, quando al Risorgimento della Nazione non seguì quel Risorgimento delle masse auspicato dalla democrazia rivoluzionaria.

E’ nota la tesi storiografica della drammatica fine del PdA dovuta all’esasperata divergenza interna tra una destra e una sinistra del partito. Bisogna revisionare questa tesi. Il Partito Socialista Italiano sopravvisse alle numerose scissioni e alla quotidiana lotta interna tra riformisti e rivoluzionari, sopravvisse ai tracolli elettorali, a tangentopoli e oggi ha un proprio rappresentante al governo della Repubblica. Il Partito d’Azione, in realtà, cominciò a morire con l’esautoramento del governo Parri, che segnò la fine di quella rivoluzione democratica, etica, che l’Italia non aveva mai avuto e che impaurì le consorterie sopravvissute al fascismo; cominciò a morire quando l’idea della repubblica presidenziale di Calamandrei fu sconfitta alla Costituente, cominciò a morire quando l’idea dell’Europa terza forza tra Russia e America fu sconfitta a Potsdam. Ci saranno tempo e modo di approfondire la questione.

Vittorio Cimiotta scrive che «la tradizione azionista fa parte di quella minoranza eretica sempre perdente» (p. 16), e accenna alla condizione permanente di solitudine in cui si trovò il Partito d’Azione. E’ l’ora che i “soli” si uniscano e che le minoranze tornino a fare la storia, che non è per niente finita come qualcuno ha tentato di far credere.

da IL PONTE -rivista fondata da Piero Calamandrei

Anno LXX n.5 - maggio 2014

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